Ensor, Pirandello e Nietzsche: la maschera e la follia

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Versione audio: James Ensor (1860-1949), pittore belga, uno dei grandi maestri del Simbolismo europeo, è universalmente considerato, e non a torto, il “pittore delle maschere”. Il tema della maschera comparve, nella produzione dell’artista, sin dal 1879, con il quadro Maschera che guarda un battelliere negro, ma divenne ricorrente solo a partire dal 1887. La gran parte dei suoi dipinti, da quell’anno, iniziò ad ospitare personaggi mascherati in modo orrido o grottesco. Maschere oltraggiose, respingenti: «Queste maschere piacevano molto anche a me, perché offendevano quel pubblico che non mi aveva compreso per niente», scrisse l’artista. Da pittore simbolista dissacrante ed eversivo, egli adottò la maschera carnevalesca per mostrare il lato più oscuro, ipocrita e cinico dell’umanità. Se normalmente le maschere nascondono, le sue invece svelano la falsità di chi le indossa. Della maschera divenne corollario lo scheletro, ineluttabile prefigurazione del destino umano e fonte di macabro umorismo. Ensor si spinse a intervenire su parte della sua produzione precedente al fine di aggiornarla con questi temi. Autoritratto con maschere Una delle opere più originali di Ensor, certamente la più viscerale e provocatoria, è Autoritratto con maschere, del 1899. Nel corso della sua lunga carriera, il pittore realizzò ben 112 autoritratti. In questo, che è il più famoso, Ensor si ritrae in mezzo a una folla triviale e chiassosa di personaggi mostruosi, bardati di piume e di stracci colorati, dalle tinte acide e aggressive. Tutti lo pressano e lo opprimono, impedendogli ogni via di fuga. Nessuno mostra il proprio volto, o comunque un volto umano: alcuni sono mascherati, altri sono truccati da clown, altri ancora si presentano come orridi scheletri. L’artista, al centro del quadro, indossa un bizzarro cappellino femminile, fiorito e piumato, e guarda fisso lo spettatore, alla ricerca di un dialogo diretto. Nonostante il suo buffonesco travestimento, egli, in realtà, sembrerebbe essere l’unico essere umano ai nostri occhi “normale”, in quella folla di mostri: il suo volto è regolare, i lineamenti appaiono delicati, la barba è ben curata, i baffi ribelli sono vezzosamente arricciati vero l’alto. Ma l’artista resta comunque diverso da tutti gli altri, che lo vedono sicuramente come altro da loro, e in questa sua condizione di diversità si scopre irrimediabilmente solo. Le maschere di Ensor D’altro canto, cos’è la normalità? I mostri, mascherati e truccati perché falsi, ipocriti e bugiardi, e in quanto scheletri già morti, dentro, senza nemmeno saperlo, si reputano normali, perché si riconoscono l’un l’altro. Quello “strano” è l’artista, che ha l’ardire di rivendicare la propria individualità, perfino la libertà di mettersi un cappello da donna in testa, contravvenendo a tutte le convenzioni sociali che lo vogliono uomo vestito rigorosamente da uomo. Lo aveva già fatto alcuni anni prima, nel 1888, in Autoritratto col cappello fiorito, dove aggiunse un cappello femminile a un suo precedente autoritratto del 1883. Con questo non intendiamo sostenere che Ensor amasse, nel privato, vestirsi da donna, cosa che non ci risulta: importa che egli scelse di farlo, pubblicamente e provocatoriamente, in un autoritratto, perché lo reputava un suo diritto, anche a costo di apparire agli occhi degli altri bizzarro o addirittura pazzo. In tal senso, la modernità e attualità di questi dipinti sono a dir poco sbalorditive. Certo, il concetto stesso di normalità non si addiceva a questo artista, progressista, positivista, incline al libero pensiero venato di anarchismo, ostentatamente pittoresco nella sua quotidianità. Cresciuto nel negozio della madre a Ostenda, dove si vendevano souvenir e curiosità esotiche, «tutta iridescente di conchiglie e sontuosi merletti, ma anche di strane bestie impagliate e terribili armi di selvaggi che mi spaventavano», scelse poi di vivere per gran parte della sua vita auto...

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