Fontana, Montale, Schopenhauer: cercare un varco, squarciare il velo
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Versione audio: Secondo lo scrittore e poeta Milan Kundera (1929), «la domanda è come un coltello che squarcia la tela di un fondale dipinto per permetterci di dare un’occhiata a ciò che si nasconde dietro». E cosa sono i famosi tagli dell’artista Lucio Fontana (1899-1968), se non domande reiterate, anzi, la medesima, inesausta e inesaudita domanda? E in cosa si concretizza il “gesto d’artista” di Fontana, se non nella ricerca insistente di una risposta che non arriva? Il varco di Montale È, questo, un anelito che guida l’opera di artisti e poeti. Il poeta Eugenio Montale (1896-1981), nella sua opera, è sempre alla ricerca di un “varco” verso l’essenza delle cose e confida nel miracolo. «Il varco è qui?», si chiede nella poesia La casa dei doganieri del 1939. Nella poesia Prima del viaggio, del 1962, Montale afferma perentorio: «un imprevisto / è la sola speranza», e benché poi aggiunga, come sconfortato: «Ma mi dicono / che è una stoltezza dirselo», resta il fatto che il “poeta del mal di vivere” conceda sempre una possibilità al dubbio. Il viaggio cui il poeta allude è la metafora della vita; il varco, l’imprevisto (che può aprire al vero) rimandano chiaramente a qualcosa d’altro che non si possiede, non si programma, non si decide ma che può dare le risposte. E che quindi si cerca. E che si desidera. Perché, come aveva già spiegato Giacomo Leopardi, è sempre il desiderio a muovere il cuore dell’uomo. Certo, Montale, pur intravedendo il varco, la «maglia rotta nella rete che ci stringe», come scrive nella poesia In limine del 1924, non ebbe mai il coraggio di procedere davvero a fondo nella sua ricerca. Quell’oltre gli appariva troppo lontano, troppo indefinibile, troppo oscuro, troppo contraddicente rispetto a ciò che si conosce attraverso la ragione. «Dicono / che è una stoltezza dirselo»: dicono, tutti, tanti. Però, forse, chissà. Di fatto, continuò ad aspettare, per tutta la vita, il «fantasma che ti salva» (In limine) e ad alimentare quel sussulto di speranza vissuto come l’incentivo a una nuova invenzione dell’esistenza. Squarciare il Velo di Maya C’è un’altra famosa metafora cui rimanda il taglio di Fontana: quella del Velo di Maya squarciato. Il filosofo tedesco Arthur Schopenhauer (1788-1860) ha definito Velo di Maya quelle forme illusorie che gli esseri viventi tendono a creare e in cui vengono imprigionati. È da intendersi sia come il velo che avvolge la verità oggettiva delle cose (e la deforma rendendola “rappresentazione”) sia come il velo che copre lo sguardo degli uomini e impedisce loro di vedere la realtà genuina (il noumeno, le cose come sono in sé). Questo velo ingannatore, avvolgendo gli occhi dei mortali, fa loro conoscere un mondo del quale non può dirsi né che esista né che non esista, perché divenuto un tessuto di apparenze. Pervenire alla verità (e abbracciare il noumeno) comporta squarciare il Velo di Maya. In qualche modo, è come tagliare la tela di Fontana. In fondo, l’infinito che cercava Fontana non è forse identificabile con la Verità?