La Resurrezione di Piero della Francesca

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Versione audio: Piero della Francesca (1416/17-1492), il cui vero nome era Piero di Benedetto de’ Franceschi, fu un pittore intellettuale, di grande cultura e difficile da interpretare. Le sue opere, impassibilmente razionali, sospese tra arte e studi di geometria, presentano sempre un complesso sistema di lettura a vari livelli, che tiene conto di questioni storiche, teologiche e filosofiche. In un’epoca in cui arte e scienza sembravano unite da vincoli profondi, egli fu, come scrisse il matematico Luca Pacioli (1445-1517), un “monarca della pittura”. La Resurrezione di Piero della Francesca. Con grandissima acutezza intellettuale, riuscì a conciliare la prospettiva geometrica di Brunelleschi, il senso del volume di Masaccio, la luminosità di Beato Angelico e di Domenico Veneziano, l’attenzione per il dettaglio tipica dei fiamminghi. Di tutti gli artisti umanisti del Quattrocento, fu uno dei più completi e cerebrali, e non a caso influenzò profondamente le successive generazioni di pittori. La Resurrezione Tra le sue opere spicca la bellissima Resurrezione, dipinta a Borgo San Sepolcro, fra il 1463 e il 1465. In questo affresco, Cristo rappresenta il perno della composizione ed emerge maestoso e autorevole da un grande sarcofago di pietra in primissimo piano. La gamba sinistra di Gesù è appoggiata sul bordo, la destra è ancora all’interno del sepolcro. La mano sinistra, piegata per reggere un lembo del manto rosso, mostra la ferita lasciata dal chiodo; la destra, invece, tiene un vessillo con la croce rossa in campo bianco. Ai suoi piedi dormono i soldati che avrebbero dovuto sorvegliarne il cadavere, figure dalla monumentale solidità, mostrati con scorci e pose diverse. La scena è assolutamente statica, silenziosa e solitaria, la figura del Cristo è frontale e immobile. Anche il paesaggio, diviso in due dalla figura principale, nonché per metà spoglio e metà verdeggiante, alluderebbe alla redenzione dei peccati, alla nuova vita che la morte e resurrezione del Cristo ha portato sulla terra. Per tradizione, si riconosce nel soldato bruno con l’armatura marrone, il secondo da sinistra, un autoritratto dell’artista. L’arcaismo innato di Piero Fu il critico Bernard Berenson, alla fine dell’Ottocento, a scrivere per primo della “impersonalità” delle figure pierfrancescane. Molto spesso si è fatto ricorso ad un confronto diretto fra le opere di Piero e quelle dell’arte greca, soprattutto arcaica e severa; anzi, si è parlato di un “arcaismo innato” (ossia spontaneo) dell’artista rinascimentale, facendo riferimento alla solenne monumentalità dei suoi personaggi, che sono rigidi e inespressivi come le antiche statue del primo V secolo a.C. Ovviamente, non c’è alcuna relazione diretta fra la pittura di Piero e l’arcaismo greco: la chiave di lettura della sua arte non è il richiamo alla cultura della prima classicità ma la matematica e soprattutto la geometria, le cui leggi il pittore applicò non solo alle composizioni, ma ad ogni singolo oggetto e figura, al punto da trovare sfere, coni e parallelepipedi sotto ogni testa e corpo. Come per Alberti, anche per Piero le leggi della rappresentazione s’identificarono totalmente con quelle rigorose della prospettiva matematico-lineare; la pittura, scrisse nel De Prospectiva Pingendi, «non è se no dimostrationi de superficie et de corpi degradati o accresciuti […] secondo che le cose vere vedute da l’occhio socto diversi angoli s’apresentano». Nel mondo pittorico di Piero, anche la presenza dell’uomo è sottoposta alle leggi di quell’ideale geometrico prospettico. A Piero gli oggetti, tutti gli oggetti, dunque anche gli uomini, interessarono solo nella loro idealità geometrica; la figura umana fu da lui concepita non come rappresentazione di un individuo ma nella sua identità assoluta di forma, luce e colore. In tal modo,

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