L’arte barbarica
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Versione audio: Nell’antichità greco-romana, il termine barbaro indicava lo straniero, ‘chi non sa parlare’, e aveva una forte connotazione dispregiativa. Erano infatti denominati “barbari” quei popoli di stirpe diversa, stanziati nei territori dell’Impero romano e considerati incivili e rozzi. Anche la definizione di arte barbarica ha presupposto per lungo tempo un giudizio drasticamente negativo. L’estetica barbarica In effetti, se messa a confronto, sul piano della forma, con quella ellenistica, l’arte prodotta dalle popolazioni non romanizzate risulta così elementare e involuta nello stile da potervi individuare una sorta di sopravvivenza preistorica. Non è questo, però, il modo corretto per approcciare, capire e conseguentemente apprezzare la cultura delle popolazioni barbare. A differenza di quella greco-romana, l’arte barbarica non fu naturalistica e, di norma, nemmeno figurativa, ma geometrica e astratta. Gli artisti barbari amarono gli schemi complicati e tortuosi, gli animali ridotti a puri elementi decorativi, i draghi attorcigliati nelle proprie spire. Nelle loro raffigurazioni è tutto un annodarsi di curve, in cui l’occhio tende a perdersi, piacevolmente rapito. La figura umana fu pressoché ignorata, e quando venne rappresentata fu ridotta a semplice segno abbozzato, senza mai presentare una minima consistenza corporea. La realizzazione di queste immagini richiese certamente una notevole fantasia, oltre che un’infinita pazienza e, soprattutto, una grande maestria. Semplicemente perché si configurò come una forma d’espressione profondamente diversa da quella classica, l’arte barbarica non può quindi considerarsi involuta rispetto a quella romana. Il pensiero di Hauser Si è molto dibattuto sulla natura di quest’arte, che fu popolare secondo alcuni, semplicemente rustica secondo altri. Come ha scritto lo storico dell’arte novecentesco Arnold Hauser, «se per arte popolare s’intende un’arte relativamente semplice, destinata a un pubblico culturalmente indifferenziato, l’arte barbarica fu un’arte popolare. Non lo fu, se si vuole designare, con questo termine, un’attività non professionale e non specializzata. La maggior parte degli oggetti che ci sono pervenuti presuppongono un’abilità artistica assai superiore a ogni dilettantismo; non si può pensare che siano frutto di attività saltuarie, ma anzi di profonda preparazione e lunga pratica». Gli artisti barbari non avevano mai visto sculture o dipinti romani e nemmeno miniature bizantine. Quando la conversione al cristianesimo richiese loro la produzione di immagini sacre, essi continuarono a dipingere o scolpire secondo i dettami della propria cultura artistica. Nell’Irlanda celtica e nell’Inghilterra sassone, per esempio, l’essenzialità della figura umana fu così rigorosa da superare persino l’antico geometrismo greco. Le miniature barbariche I manoscritti miniati del Nord Europa si riempirono di figure i cui panneggi delle vesti, i capelli e i tratti del volto erano stati trasformati in intrecci di linee curve. Spesso, i miniatori merovingi, longobardi e visigoti si limitarono a decorare la pagina e le fantasiose iniziali con motivi fitomorfi (a forma di pianta), zoomorfi (che rappresentavano animali) e geometrici, colorati con poche tinte. La cosiddetta miniatura iberno-sassone, sviluppatasi in Irlanda e in Inghilterra, fu celebrata per i suoi complicati intrecci a motivi geometrici, dove s’inseriscono figure fortemente stilizzate di uomini e di animali. Ne sono un esempio alcuni evangelari (libri liturgici in cui sono raccolti i quattro Vangeli), tra cui l’Evangelario di Kells, l’Evangelario di Lindisfarne e l’Evangelario di Durrow realizzati tra la fine del VII e il IX secolo. L’oreficeria barbarica I popoli barbari usarono vestirsi con abiti sfarzosi e amarono ricoprirsi di gioielli. Non a caso, la testimonianza più importante della loro arte è sicuramente costituita dall’oreficeria.