Le donne di Caravaggio 1: Annuccia

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Versione audio: La città di Roma, a cavallo tra XVI e XVII secolo, era una metropoli ricca e popolosa, abitata da cardinali facoltosi e potenti, nobili, uomini di affari ma anche da una variegata moltitudine di popolani, tra cui artigiani, bottegai, mendicanti e gentaglia dalla reputazione poco raccomandabile. Accanto ai quartieri lussuosi e ai magnifici monumenti medievali e rinascimentali, si dipanava un dedalo di strade strette e sporche, gremite di squallide botteghe e puzzolenti osterie, dove scorrevano fiumi di vino e si scatenavano risse non di rado mortali, provocate da giovinastri sempre pronti a tirar di spada approfittando di ogni pretesto, lecito o strumentale. Alcuni disperati si guadagnavano da vivere barando al gioco; zingare e prostitute, spesso poco più che bambine, si concedevano per pochi spiccioli o derubavano i clienti. Caravaggio, artista turbolento In questo ambiente pericoloso e malfamato si aggirava, compiaciuto, il giovane pittore milanese Michelangelo Merisi da Caravaggio (1571-1610), stabilmente residente a Roma dal 1595. Questo artista, dotato di un talento prodigioso, si era perfettamente integrato in quel contesto sociale di marginalità, così congeniale al suo carattere turbolento e provocatorio. Risiedeva nel quartiere di Campo Marzio, in una stanza piccola e umida, al secondo piano di una costruzione che oggi non esiste più. Lì abitò fino alla drammatica domenica del 1606, quando dovette fuggire da Roma per aver ucciso Ranuccio Tomassoni. Frequentava i giovani del quartiere. Con loro passava di osteria in osteria, di bisca in bisca e certamente frequentava i numerosi bordelli, vero cuore pulsante dell’economia e della socialità della Città Santa. Spesso si lasciava coinvolgere in zuffe, risse e duelli, non di rado veniva arrestato e passava qualche notte in prigione, in attesa che i suoi importanti protettori, in primis il Cardinale Francesco Maria del Monte o gli esponenti della Famiglia Colonna, intervenissero per favorire il suo rilascio. Il naturalismo di Caravaggio Caravaggio si caratterizzò da subito come un pittore magnifico ma controverso. Importò a Roma un nuovo linguaggio figurativo improntato al più radicale naturalismo, quello stesso che aveva acquisito durante la sua formazione lombarda. Animò le sue scene sacre di personaggi apparentemente miseri e sciatti che agivano in ambienti spogli e bui e di figure femminili considerate troppo carnali. Per questo motivo, per secoli è stato identificato con l’idea stessa della trasgressione, del genio sregolato, e la sua pittura è stata giudicata rozzamente realista. Quando venne chiesto a Caravaggio quali fossero, secondo lui, le qualità di un “valent’huomo”, l’artista rispose: «appresso di me vuol dire che sappi far bene, cioè sappi far bene dell’arte sua, così un pittore valent’huomo, che sappi depigner bene et imitar bene le cose naturali». Un bravo pittore, secondo Caravaggio, non doveva solo avere delle buone competenze tecniche ma essere anche capace di imitare dal vero. In realtà, il marcato naturalismo proposto da Caravaggio trovava autorevoli e remote premesse nelle sperimentazioni di Leonardo, che l’artista aveva attentamente studiato a Milano. Inoltre, ben lungi dall’essere una mera riproduzione del vero, si arricchì di colte e acute citazioni da Raffaello e Michelangelo. Anche per questo, il linguaggio figurativo caravaggesco entusiasmò i colti collezionisti della città papale. Tuttavia, lasciò sconcertati tantissimi altri, poco inclini o preparati per comprendere la profondità della pittura caravaggesca, forse semplicemente invidiosi del suo talento e del suo crescente successo. Furono soprattutto i critici controriformisti, più ortodossamente legati alla tradizione classica, a giudicare poco dignitose, se non addirittura lascive e immorali, le sue tele popolate di apostoli dall’aspetto umile e dimesso, spettinati e con i piedi sporchi. Inoltre,

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